Reddito di Cittadinanza e reato di falsa dichiarazione: sentenza n. 5540/2023 della Corte di Cassazione

Numerose sono le sentenze emesse dai Tribunali e dalla Corte di Cassazione, nelle quali si è definito l’argomento Reddito di Cittadinanza. Vediamo nell’articolo cosa stabilisce la Cassazione con la sentenza n. 5540/2023. INFO: Enasco 50 & Più Firenze (dott. Angelo Rizzo) tel 055 2036921 - enasco.fi@enasco.it

La Cassazione si pronuncia in materia di Reddito di Cittadinanza, affermando che è penalmente responsabile chi indica la moglie, legalmente separata, come componente del nucleo familiare, allo scopo di ottenere il beneficio economico.

 

La persona imputata ha dichiarato infatti, che la moglie da cui risultava a tutti gli effetti separato, faceva ancora parte della sua famiglia. Il legale dell’uomo cercando in tutti i modi di difendere il proprio assistito ha spiegato infatti, che questi si trovava in una situazione economica disagiata e che non voleva truffare nessuno, ma la Cassazione non ha creduto a questa versione dei fatti.

 

Si configura così la penale di responsabilità in capo al percettore del Reddito di Cittadinanza che ha mentito riguardo alla reale composizione del nucleo familiare, per poter ottenere un importo maggiore rispetto a quello altrimenti spettante.

 

La Corte d’Appello di Torino ha condannato l’imputato alla reclusione (un anno, quattro mesi e venti giorni) per il reato ex art. 7, comma 1, D.L. n. 4/2019, in quanto, al fine di ottenere indebitamente il beneficio del Reddito di Cittadinanza, ha reso dichiarazioni false, indicando quale componente del proprio nucleo familiare, e coabitante, la moglie da cui era legalmente separato.

 

Il soggetto in questione si è difeso sostenendo di versare comunque in condizioni personali tali da avere diritto a percepire il sussidio, indipendentemente dall’inclusione della moglie nel nucleo familiare. Ha quindi sostenuto la non configurabilità del reato di false dichiarazioni al fine della percezione del Reddito di Cittadinanza, di cui all’articolo 7, comma 1, del D.L. n. 4 del 2019, essendo in presenza di un «falso innocuo».

 

L’imputato ha anche dichiarato la propria buona fede, per avere «prima incluso, poi escluso, quindi definitivamente incluso la moglie nella dichiarazione relativa al nucleo familiare».

 

Approdata in Cassazione, la vicenda si è chiusa con la conferma definitiva della sentenza impugnata.

 

La norma dispone quindi che: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all'articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni».

 

Secondo i giudici della Suprema Corte, la suddetta disposizione, «anche in chiave di coerenza logica del sistema», deve intendersi riferita non soltanto ai casi di dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, oppure in caso di informazioni omesse e/o dovute, finalizzate a conseguire il beneficio economico del Reddito di Cittadinanza quando questo non spetterebbe in alcuna misura, ma anche nei casi di dichiarazioni o documenti falsi, attestanti cose non vere, omesse di informazioni dovute finalizzati a conseguire il beneficio economico del reddito di cittadinanza per un importo maggiore di quello altrimenti spettante, come nel caso in esame.

 

La Suprema Corte ha così commentato: «posto che il reato di cui all’art. 7, comma 1, d.l. n. 4 del 2019 è configurabile anche nei casi di dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, o di omissione di informazioni dovute finalizzati a conseguire il beneficio economico del reddito di cittadinanza per un importo maggiore di quello altrimenti spettante, una falsità relativa ai dati rilevanti ai fini della determinazione della rata da erogare, quale quella incidente sulla composizione del nucleo familiare, come accertato essere avvenuto nel caso di specie, non può certo qualificarsi innocua».

 

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